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All’inizio di ogni anno, il mondo intero fa memoria dell’orrore della Shoah, perché, per nessun motivo, possa essere dimenticato. Pochi, però, sanno realmente come tutto è cominciato.
Il “programma”nazista, infatti, non aveva pianificato l’eliminazione di una sola minoranza, quella ebraica. Era andato ben oltre, organizzando lo sterminio di tutte le minoranze scomode, o “dannose”: ebrei, zingari, omosessuali, oppositori. Ma la prima ad essere colpita fu una minoranza ancora più fragile: le persone con disabilità.
Lo storico Luca Des Dorides ci aiuta a riflettere su una delle facce più terribili dello sterminio nazista, e anche l’ultima a venir fuori.
Indice dell'articolo
Il piano di sterminio delle minoranze
Paradossalmente, come tutto è cominciato è stata l’ultima cosa ad emergere, non tanto storiograficamente quanto mediaticamente, nell’opinione pubblica. In realtà, il programma di sterminio nazista non si avvia come operazione per l’eliminazione degli ebrei, ma inizia con la soppressione in massa delle persone con disabilità: quelle persone piene di imperfezioni e mancanze che le teorie eugenetiche ritenevano eliminabili.
La connessione del tema della Shoah con la disabilità nasce con le ricerche di Henry Friedlander, storico (“Le origini del genocidio nazista”) che comincia ad indagare nei sui studi sul ruolo delle persone disabili nel “progetto” delle sterilizzazioni forzate e della soppressione di massa.
Con lo sfondo delle teorie eugenetiche, i disabili furono, infatti, le prime minoranze ad essere identificate dal regime nazista come superflue, anzi dannose: un peso economico di cui la società tedesca doveva quanto prima liberarsi.
Spiega lo storico Luca Des Dorides (Istituto Statale per Sordi di Roma, dove dirige la biblioteca Mediavisuale, esperto di storia orale e autore di diversi studi sulla memoria storica delle persone sorde):
Che lo sterminio sia iniziato in questo modo, dalle persone con disabilità, da un punto di vista storiografico è un fatto noto, ma in realtà è stato l’ultimo aspetto ad emergere.
L’inizio dello sterminio non ebbe dunque nulla a che fare con gli ebrei: riguardò l’eliminazione dei soggetti imperfetti, mancanti, responsabili, secondo i nazisti e secondo le politiche eugenetiche, di inquinare la purezza e la perfezione della razza ariana e di essere un inutile peso per la società tutta.
I disabili e la Shoah
L’operazione cominciò in segreto, anche se in realtà il regime aveva provveduto a una propaganda intensa del messaggio che le persone con disabilità rappresentassero un peso per la società tedesca.
Cominciarono con i bambini disabili. Andarono a prenderli nelle scuole, negli istituti psichiatrici, nelle “scuole per fanciulli deficienti”, in tutte le strutture che ospitavano persone con disabilità ereditarie. Per capirci, se uno si era rotto una gamba in guerra non era un problema per loro. Il problema era ciò che a quei tempi consideravano “disabilità”, patologia ereditaria. Un po’ come avveniva anche nei manicomi in Italia, dove finivano anche persone che non erano nemmeno definibili come disabili o malati, ad esempio i sordi, molti dei quali venivano internati per il solo fatto che non sentivano.
L’eliminazione di massa cominciò così.
Come avvenne lo sterminio nei campi per i disabili
Continua lo storico:
I metodi utilizzati per lo sterminio delle persone con disabilità andavano dalla denutrizione a sistemi via via più sofisticati ed economici, come l’utilizzo del gas. Spesso venivano fatti salire su un furgone, dove respiravano il gas.
Il furgone continuava a girare, a girare, finchè non erano tutti morti.
Poi forno, e via.
Dopo di che scrivevano alla famiglia: “Il vostro parente sta male”, poi che stava sempre peggio, finchè non si comunicava la sua morte. Infine, la lettera di scuse perché, erroneamente, ne era stato bruciato il cadavere.
Siamo nel 1939-40. Sono, in pratica, le prove generali di quello che avverrà su larga scala nei campi di concentramento. Infatti molto del “personale” dei campi poi tristemente noti viene “formato” proprio in questi primi campi, in cui sono recluse le persone con disabilità.
Perchè lo sterminio dei disabili si fermo?
Il progetto dei nazisti, tuttavia, non riuscì. Il programma di eliminazione dei disabili iniziò presto e finì presto. Non perché i nazisti si fermassero davanti a nulla, ma perché far passare che il nemico è dentro di te non è facile: comunque si trattava di mutilare intere famiglie tedesche, di privarle di figli, fratelli…
Identificare un nemico esterno e demonizzarlo è invece molto più semplice.
Come è successo poi nel proseguimento del piano di sterminio con gli ebrei. E come succede oggi con altre minoranze, i migranti.
Mentre è facile costruire la figura dell’ebreo come un’alterità estranea e ostile, non lo è altrettanto affermare che una parte dei tedeschi va eliminata. Quindi, quando cominciò a trapelare quello che avveniva nei campi, si avviarono una serie di proteste, sia da parte della società civile che della chiesa cattolica. Il programma, dunque, almeno formalmente, venne fermato. Ma in realtà continuò. Ci sono testimonianze di alcuni campi in cui, anche a guerra finita, con gli americani alle porte, pur di finire “il lavoro”, veniva sparsa la voce che nel campo fosse in atto un’epidemia. Così, mantenendo i reclusi in quarantena e restando isolati dall’esterno, c’era tutto il tempo di andare avanti.
I primi studi e la nascita del Giorno della Memoria
A partire dagli anni 2000 circa c’è stato un picco di interesse sul tema della Shoah vissuta dalle persone con disabilità, in particolare dopo alcune giornate di studi e pubblicazioni come Deaf people in Hitler’s Europe, (a cura del
Questo ha permesso l’avvio della ricerca su questo tema e la produzione di materiali, come è avvenuto all’interno del Rouchester Institute of Technology (RIT), dove hanno creato un primo archivio video. Poi l’argomento è passato in secondo piano.
11 anni di “Testimonianze silenziose”
L’avvio degli studi e la ricerca di testimonianze su questo tema si intreccia con l’istituzione della Giornata della Memoria sulle vittime dell’Olocausto (nel 2005).
Lo storico Luca Des Dorides partecipa all’organizzazione di un importante evento che si tiene ogni anno in occasione del Giorno della Memoria, “Testimonianze silenziose”, presso l’Istituto Statale per Sordi di Roma. Da ormai 11 anni, Testimonianze cerca di farci riflettere su Shoah e disabilità:
L’idea di Testimonianze Silenziose nasce perché il Giorno della Memoria viene istituito poco tempo prima. Il primo seminario viene organizzato qui in Istituto nel 2010; dal 2011 ho preso in mano io Testimonianze, in qualità di storico dell’età contemporanea.
Abbiamo cominciato prendendo spunto dal documentario “I sordi austriaci e il Nazionalsocialismo”, realizzato da una ricercatrice austriaca sull’eutanasia…la chiamavano così…cioè sulla sterilizzazione forzata dei disabili nei primi campi. Cominciammo così a parlare della soppressione delle persone con disabilità in Germania. All’inizio ci siamo concentrati solo sui sordi, raccontando della sterilizzazione dei sordi che stavano nelle scuole speciali. Poi abbiamo ampliato gli orizzonti.
Dai sordi, ai disabili, ai migranti. Ecco perchè.
A che cosa serve la Giornata della Memoria?
Continua Luca:
Abbiamo cercato di dare voce a quelle che sono testimonianze, rimaste a volte silenti per anni, anche perché non crediamo che il Giorno della Memoria raggiunga i suoi obiettivi se si trasforma in una liturgia svuotata di contenuti.
Alcuni intellettuali ebrei ritengono che il ricordo delle vittime sia della comunità ebraica. Le appartiene. Quel giorno in Israele c’è una sirena che suona, e tutti si fermano. Tutti. Quello che fanno gli europei nel Giorno della Memoria è, invece, in questa prospettiva, più un ricordo dei carnefici, degli orrori accaduti. Io non concordo con questa idea perché le vittime della Shoah non sono solo del popolo ebraico. Sono mie, sono tue, sono nostre.
I campi di oggi
Il punto però, a mio avviso, è un altro. La giornata della Memoria deve servire non solo a ricordare, ma a riflettere su come è potuto accadere.
Quello che noi ci dobbiamo chiedere è come le persone – il lattaio, il fornaio – in Germania, in Italia, in Francia…dappertutto, perché non è che si può scaricare tutto sui tedeschi…come in tutto il mondo occidentale, e soprattutto come in uno dei paesi più avanzati, la culla del sapere in Europa, abbia potuto circolare un’ideologia come questa. Ragionare sui carnefici quindi è fondamentale.
Anche perché dal mondo di oggi i campi non sono certo spariti. Anzi. In Turchia, nei Balcani, in Siria? Non sono campi? Non hanno lo stesso significato dei campi di concentramento, certo, ma è un terreno scivoloso su cui si deve camminare.
Sono temi nodali del nostro tempo che vanno affrontati: fare Memoria oggi significa parlare di questo.
Il gran calderone delle sofferenze e delle lacrime “sterilizzate” a livello politico e confinate alle stragi nazi-fasciste non ci serve a molto se resta fine a se stesso. Non a caso attualmente i paesi in cui il Giorno della Memoria è apparentemente molto sentito e vissuto con imponenti ritualità istituzionali, sono proprio quelli in cui rileviamo una recrudescenza della xenofobia e dell’ odio.
Questo è quello che cerchiamo di fare con Testimonianze silenziose.
Shindler’s List: conversazioni metodologiche sulle storie di vita
Un forte stimolo alla ricerca sulla Shoah è stato il film Shindler’s List (1993, regia di Steven Spielberg), poiché per realizzarlo è stata fatta un’enorme ricerca di documenti e testimonianze.
Quando chiedo a Luca Des Dorides di che testimonianze si tratta, cioè esattamente come sono state raccolte, si avvia tra di noi un dibattito nella terra di frontiera tra due campi di studio liminari: la storia orale – il suo – e l’intervista qualitativa in sociologia – il mio.
Un dibattito di natura metodologica che mi sembra importante riportare a margine di questo contributo, in quanto non attiene alla forma – come forse potrebbe sembrare a chi non si occupa di ricerca – ma alla sostanza delle storie di vita che raccogliamo e raccontiamo. È, inoltre, rilevante considerare come gran parte della rappresentazione mediatica e, in particolare, cinematografica – soprattutto di matrice americana – risenta di questa impostazione della rilevazione della memoria storica.
L.D: Conosci Shindler’s List, vero?
L.M: Certo.
L.D.: Tutti conoscono il film, chiaro. Ma non sanno che dietro c’è stata una grandissima ricerca di documenti e testimonianze che ha prodotto un archivio video enorme, poi affidato da Spielberg all’Università della California Meridionale. Spielberg, per realizzare la sua opera, finanziò un grande, capillare, lavoro di ricerca storiografica e archivistica di racconti e testimonianze, attraverso la Shoah Foundation. Parliamo di centinaia di migliaia di ore di testimonianze. Tra queste, anche le testimonianze di persone sorde.
L.M.: Si tratta di testimonianze di storia orale, interviste in profondità?
L.D.: In verità, chi – come me – si occupa di storia orale, non apprezza molto l’approccio della Shoah Foundation alla raccolta delle testimonianze…Perché è un esempio di quella che chiamo “americanizzazione della Shoah”. Ti spiego cosa voglio dire.
Le interviste hanno una struttura ben definita: un terzo del tempo bisogna parlare della “vita prima”, un terzo del tempo alla Shoah, il terzo finale alla “vita dopo”.
L.M.: Decisamente non mi sembra in linea con un approccio biografico…
L.D.: Esattamente. Questo incastona la vita delle persone in un corso ben determinato, che contrasta con la realtà della vita vissuta, è come preimpostato dalla ricerca. Un terzo, un terzo, un terzo…O anche due terzi per la Shoah e un terzo per tutto il resto… Il punto non è quanto tempo venga dedicato. Solo, è scarsamente riconducibile alle molteplici modalità con cui la vita delle persone si è incrociata con il corso della Shoah. Inoltre, tende a dare troppa poca attenzione a tutto ciò che è il “dopo” la Shoah..un dopo che in molti casi dura circa 50-60 anni.
L.M.: Dare un tempo predefinito allo spazio di un ricordo è interrompe il flusso spontaneo della memoria. È come bloccarlo…
L.D.: …E anzi, potrei dire che la Shoah di queste persone non solo non si esaurisce nello spazio “assegnato” al dopo, ma dura ancora oggi nei loro figli e nei loro nipoti. Anche perché molti testimoni hanno iniziato a parlare molti anni dopo, diciamo dopo gli anni Sessanta. L’attenzione verso questi temi è qualcosa di nostro, non è iniziata subito. All’inizio le varie comunità ebraiche vogliono dimenticare, continuare a vivere. Non si vuole gravare la rinascita, la ricostruzione.
Soltanto con il processo Eichmann, quello di cui ha parlato Hannah Arendt (“La banalità del male”, 1963), impostato non come un processo giuridico alla persona, ma come un processo pubblico al nazismo e alla Shoah, vengono chiamati moltissimi testimoni che hanno vissuto i campi di concentramento. Solo qui, da questo momento, l’obiettivo diventa raccontare. Si vuole che tutto il mondo ascolti le storie della Shoah. Da qui nasce quella che Michel Wieviorka definisce “l’era del testimone”.
La vita delle persone, indagata come memoria, richiede attenzione per la sua unicità.
L.M: È una sorta di diaristica in forma orale, controproducente ma soprattutto come cercare di soffocarla in uno schema?
L.D.:Si possono ricercare delle costanti, questo sì, ma la storia di vita si impone nella sua unicità, nei suoi scarti, che sono proprio le porte attraverso le quali l’intervistato pone focus nuovi, non previsti.
Il modo di indagare il passato adottato per la ricerca di cui parliamo, quella della Shoah Foundation, è funzionale, mi sento di dirlo, al racconto di una storia: il “Prima”- il Male – il “Dopo”e la vita che ricomincia. Insomma, una storia a lieto fine molto americano, per questo ti ho parlato di “americanizzazione della Shoa”. Tra l’altro è una struttura che viene riprodotta fedelmente in molti film e documentari sulla Shoah.
L.M.: Un processo di framing…
L.D.: Ti faccio un esempio: c’è un documentario in cui una ragazza fugge dalla Germania nazista, e riesce a scappare negli Stati Uniti senza far scoprire di essere sorda (cosa non da poco). Lì finalmente, dopo varie peripezie, è libera e riesce a ricostruire la sua vita. La scena finale è quella di una tavola imbandita con una bella famiglia intorno.
Ma la Shoah non è solo questo, è anche la storia di gente che ritorna e trova la casa distrutta e la sua vita spezzata. I beni materiali sono rotti, e lui è rotto dentro. È un “Dopo” che del lieto fine non ha nulla. Sono vite spezzate che ricominciano in modo molto diverso dal Prima, spesso parziale, comunque difficile.
Nel film “La razzia”(2018) si racconta la storia di uno che è rimasto solo. Solo.
La Shoah raccontata nei termini della storia triste ma a lieto fine è un racconto semplice, holliwoodiano, forse adatto ai bambini.
Certo, un lieto fine infondo c’è, gli ebrei ci sono riusciti a sfuggire al tentativo di farli sparire…ma questa non è né storia, né memoria.